Il Papa vuole renderci consapevoli di una malattia spirituale diffusa nel nostro tempo: non è il semplice “sentirsi orfani”, ma quasi il rivendicare la propria condizione di autonomia individuale, senza riuscire però a liberarsi da un senso profondo di insoddisfazione, causato dal “degrado” umano di non appartenere a nessuno, e di percepire che nessuno ci appartenga.
La perdita dei legami tra le persone, tipica di questo tempo frammentato, genera vuoto e solitudine, solo apparentemente compensati dai “contatti” virtuali. Anzi, la sensazione di condividere in qualche modo le relazioni sui social, di conservare i ricordi e gli affetti nel grande serbatoio della rete, ci rende “terminali recettori di informazioni” e ci “cauterizza il cuore”.
La rete non è la causa dell’ “orfanezza” di chi la frequenta, ma rischia di farla diventare sempre meno percepita, quasi sostituendola con un nuovo “oppio dei popoli”.
Sta a noi, operatori del web, riuscire a renderlo “spazio comune che dia senso di appartenenza, di radicamento, di comunità che unisca e sostenga”.
Mi sembra un buon augurio per il nostro lavoro, in questo anno appena iniziato.
Andrea Tomasi
Omelia di Papa Francesco
[…] Iniziare l’anno facendo memoria della bontà di Dio nel volto materno di Maria, nel volto materno della Chiesa, nei volti delle nostre madri, ci protegge della corrosiva malattia della “orfanezza spirituale”, quella orfanezza che l’anima vive quando si sente senza madre e le manca la tenerezza di Dio. Quella orfanezza che viviamo quando si spegne in noi il senso di appartenenza a una famiglia, a un popolo, a una terra, al nostro Dio. Quella orfanezza che trova spazio nel cuore narcisista che sa guardare solo a sé stesso e ai propri interessi e che cresce quando dimentichiamo che la vita è stata un dono, che l’abbiamo ricevuta da altri, e che siamo invitati a condividerla in questa casa comune.
Questa orfanezza autoreferenziale è quella che portò Caino a dire: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9), come a dichiarare: lui non mi appartiene, non lo riconosco. Un tale atteggiamento di orfanezza spirituale è un cancro che silenziosamente logora e degrada l’anima. E così ci degradiamo a poco a poco, dal momento che nessuno ci appartiene e noi non apparteniamo a nessuno: degrado la terra perché non mi appartiene, degrado gli altri perché non mi appartengono, degrado Dio perché non gli appartengo… E da ultimo finisce per degradare noi stessi perché dimentichiamo chi siamo, quale “nome” divino abbiamo. La perdita dei legami che ci uniscono, tipica della nostra cultura frammentata e divisa, fa sì che cresca questo senso di orfanezza e perciò di grande vuoto e solitudine. La mancanza di contatto fisico (e non virtuale) va cauterizzando i nostri cuori (cfr Lett. enc. Laudato si’, 49) facendo perdere ad essi la capacità della tenerezza e dello stupore, della pietà e della compassione. L’orfanezza spirituale ci fa perdere la memoria di quello che significa essere figli, essere nipoti, essere genitori, essere nonni, essere amici, essere credenti. Ci fa perdere la memoria del valore del gioco, del canto, del riso, del riposo, della gratuità.
Celebrare la festa della Santa Madre di Dio ci fa spuntare di nuovo sul viso il sorriso di sentirci popolo, di sentire che ci apparteniamo; di sapere che soltanto dentro una comunità, una famiglia le persone possono trovare il “clima”, il “calore” che permette di imparare a crescere umanamente e non come meri oggetti invitati a “consumare ed essere consumati”. Celebrare la festa della Santa Madre di Dio ci ricorda che non siamo merce di scambio o terminali recettori di informazione. Siamo figli, siamo famiglia, siamo popolo di Dio.
Celebrare la Santa Madre di Dio ci spinge a creare e curare spazi comuni che ci diano senso di appartenenza, di radicamento, di farci sentire a casa dentro le nostre città, in comunità che ci uniscano e ci sostengano (cfr ibid., 151).