Si immagina una comunicazione fatta da «avatar», ovvero identità digitali tridimensionali, con molteplici implicazioni pratiche, ma sempre a rischio privacy
A Mark Zuckerberg non manca certo il fiuto degli affari, ma l’ultima notizia che lo riguarda ha lasciato stupiti un po’ tutti. “Facebook”, la società, cambia nome e diventa “Meta”, mentre Facebook, il social, conserva il suo nome, ormai troppo noto per essere cambiato senza disorientare il pubblico.
L’operazione ha un triplice significato. Il primo è quello di separare, nell’immaginario collettivo, l’azienda dal suo prodotto più conosciuto e sempre più discusso, per sottolinearne il ruolo di azienda multiprodotto, che comprende, oltre a Facebook, Instagram, Whatsapp e Messenger.
Il cambio di nome arriva infatti mentre Facebook viene criticato perché, in nome del profitto, adotta un modello comunicativo che può favorire la comunicazione ostile, le notizie false, le risse verbali, ha uno scarso rispetto della privacy, con il commercio di informazioni personali, pratica una politica di selezione dei contenuti, che in molti casi e in diversi Paesi rasenta la censura.
Davanti al Senato degli Stati Uniti le dichiarazioni dell’informatica Frances Haugen, già dipendente di “Facebook”, hanno confermato il comportamento dell’azienda e i danni che Facebook e Instagram possono produrre, in particolare, sui giovani.
D’altra parte Facebook, il social, è sempre più percepito come un prodotto “da vecchi” ed anche Instagram sta perdendo attrattiva tra i giovani, che si orientano piuttosto verso TikTok (che non è esente dai problemi descritti per Facebook). Il secondo motivo è dare all’azienda una nuova immagine. Il nome, “Meta”, sta ad indicare un “oltre” in arrivo, e il logo è il segno di infinito, che sostituisce il “like”, la mano con il pollice in su, quasi ad indicare il superamento del “mi piace” per avviarsi verso una navigazione senza limiti.
Il terzo motivo è proiettare “Meta” in direzione di novità tecnologiche sostanziali, con una linea di nuovi prodotti identificati dal progetto metaverso. In sintesi, metaverso spinge l’uso della tecnologia dell’intelligenza artificiale verso i limiti della realtà virtuale e della realtà aumentata, che richiedono non solo programmi sofisticati, ma anche dispositivi hardware evoluti.
Si immagina a breve una comunicazione fatta da “avatar”, identità digitali tridimensionali, con molteplici implicazioni pratiche, non prive però degli stessi problemi di privacy e sicurezza delle attuali tecnologie. Sulla frontiera del “metaverso” lavorano anche altre grandi aziende informatiche, a cominciare da Microsoft, con investimenti di miliardi di dollari. La nuova tecnologia, presentata come rispettosa dei criteri etici, della sicurezza e della privacy, non può sfuggire però ad alcune domande, introdotte da recenti articoli, tra gli altri, di Gigio Rancilio su Avvenire e Federico Rampini sul Corriere della Sera.
Le potenzialità del metaverso necessitano di una cornice di regolazione normativa che presuppone principi etici chiari, che non possono essere lasciati alle aziende o a generiche dichiarazioni di intenti, e la prospettiva di persone digitali “incarnate virtualmente” nella rete richiede di interrogarsi su quale concetto di persona si stia affermando.
Sono gli stessi interrogativi che Romano Guardini poneva un secolo fa, e sono le stesse prospettive di “ecologia integrale” che offre la Laudato si’, se solo si dedichi alla transizione digitale la stessa attenzione offerta alla transizione ecologica: due facce della stessa questione.
Andrea Tomasi
La pagina WeCa su Avvenire-Lazio Sette di domenica 28 novembre 2021
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