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Storie da raccontare

Humans of Rizzo: una comunità si racconta sui social

Storie da raccontare

27 Maggio 2019
Humans of Rizzo: una comunità si racconta sui social

Un quartiere, mille volti, infiniti racconti e una storia. La nostra”, questo è quanto troviamo nell’area informazioni della pagina Facebook e del profilo Instagram “Humans of Rizzo”, progetto che possiamo avvicinare alla cornice delle tecnologie di comunità (Rivoltella, 2017), che ha un secondo spazio di condivisione in Instagram.

Ma facciamo un passo indietro. Cos’è Rizzo? E chi sono questi umani?

Rizzo sta per Rizzottaglia, un quartiere di Novara (ne avevamo sommariamente parlato nell’articolo dedicato al progetto della Caritas Diocesana della città “Una mappa per la carità”, in quanto quartiere coinvolto nel percorso) che come molti quartieri raccoglie diversi bisogni. Come raccontato da don Marco Rondonotti che abbiamo intervistato per la scrittura del pezzo: “il nostro quartiere ha solo cinquant’anni di vita e ancora oggi è impegnato in un importante lavoro per evitare che l’essere un quartiere di periferia diventi sinonimo di degrado e abbandono ma, al contrario, offra belle possibilità di incontro e di relazione”.

E gli umani sono gli abitanti del quartiere, gente molto diversa ma accomunata dalla condivisione dello stesso spazio fisico, sociale, geografico, di ricordi.

Un passo avanti

Abbiamo parlato di tecnologie di comunità, indicandolo come costrutto utile. Si tratta di un paradigma di intervento nel sociale che si fonda su un’idea forte, in quanto contro-intuitiva: ovvero l’idea per cui le tecnologie non siano strumenti che allontanano le persone, ma al contrario occasioni di creazione o ri-creazione di legami sociali. Ne parla Pier Cesare Rivoltella, direttore del CREMIT (Università Cattolica del Sacro Cuore) in un bel libretto di qualche anno fa (Tecnologie di comunità, Morcelliana, Brescia 2017), immaginando un diverso ruolo e un diverso peso per le tecnologie e il digitale. La logica è interessante: in un momento di frammentazione geografica e sociale, le tecnologie diventano connettori e contenitori di storie, come quelle che la pagina Humans of Rizzo, sulla scorta del famoso predecessore “Humans of New York”, prova a collezionare.

Nello specifico, la progettazione di canali comunicativi “amichevoli” e vicini vuole abilitare la creazione di uno spazio di condivisione finalizzato soprattutto (aspetto evidente nel documento progettuale) alla costruzione di “una narrazione alternativa rispetto al quartiere” oltre alla creazione di “legami di comunità tra coloro che partecipano, a livelli diversi, alla selezione e produzione di contenuti delle pagine social” in una logica di piena comunicazione tra online e offline (il digitale infatti è “pensato in piena continuità”).

La pagina è un tassello di un progetto più ampio, scritto da CREMIT (Simona Ferrari, Stefano Pasta e don Marco Rondonotti, quest’ultimo anche parroco del quartiere), che vuole provare a rilanciare il tema del racconto, della collaborazione, delle relazioni all’interno dei territori, lavorando sia con le tecnologie di comunità sia con la peer education (educazione tra pari). Anche in questo caso due parole: la peer education consente un guadagno importante, ovvero coinvolgere soggetti che nel quartiere vivono davvero, renderli protagonisti, creare legami ulteriori e non “calare” dall’alto soluzioni che solitamente vengono vissute come estranee, lontane e distanti in termini di significato. Questo aspetto è particolarmente evidente nei laboratori destinati agli adolescenti su identità, spazio pubblico e privato, responsabilità.

Luoghi e storie

Ciò che rende incredibilmente interessante “Humans of Rizzo” è la logica narrativa. Vengono raccontate e condivise storie personali, accompagnate da fotografie che ben marcano la presenza di una persona nel territorio, avendo cura di sottolineare le trame relazionali dietro alle persone, il senso dei legami.

Riprendendo le parole di don Marco Rondonotti, l’obiettivo è di “superare le differenti appartenenze delle persone che vi abitano; il nostro progetto desidera trasformare le diversità linguistiche, culturali e religione in ricchezza grazie alla capacità evocativa delle immagini e alla possibilità che hanno le storie di creare inclusione”.

“Tutti hanno una storia da raccontare e ognuna merita di essere ascoltata.

La Rizzottaglia è un quartiere in cui da sempre convivono persone, esperienze e culture diverse. Questa è un’occasione per farvele scoprire tutte”.

Si tratta di un invito preciso: storie da raccontare, singolari ma tutte meritevoli, con un accento alle culture diverse e alla possibilità di accedere, tramite la pagina, alle storie raccolte che diventano storie “indirettamente” collettive. La prima è quella di Stefano, educatore e studente universitario, che nel descrivere la sua storia nel quartiere – il suo punto di vista – sceglie di raccontare il giardino, uno spazio verde che ha visto crescere molti bambini come lui:

“Qui davanti abitano i miei nonni e ricordo ancora molto bene quando alle elementari, dopo scuola, mi fermavo a casa loro a fare merenda; guardando fuori dalla finestra vedevo questo grande spazio verde troppo vuoto.

Ero in quinta elementare quando grazie a un progetto organizzato dalla scuola ci è stato proposto di ideare questo parco: abbiamo scelto insieme le piante, le sagome degli animali, i colori delle panche e dei cestini”.

Un luogo, il giardino, come aggregatore che nell’online non trova un ostacolo, ma un lancio e diventa una passerella della memoria, conducendo il lettore nello spazio dell’infanzia.

E ancora la storia di un abitante del quartiere, che ci riporta ad un altro luogo: l’asilo.

“Ma i miei ricordi partono da ben più lontano: come alcuni di voi sapranno, questo è stato prima di tutto un ASILO, il mio asilo; una delle esperienze più significative che ho vissuto in quel periodo è stata una recita di fine anno in cui ho fatto la parte dello sposo; ricordo ancora i mille preparativi e la cura con cui sono stati cuciti gli abiti, ma soprattutto il nome della mia piccola compagna di nozze: Elena. Forse qualcuno aveva già previsto tutto…”

Sono parole personali, scritte con affetto ma aperte al confronto e alla dimensione relazionale, non frasi soggettivamente ripiegate su se stesse, come evidente nel terzo racconto, quello di Giorgia, che descrive il campetto con allegria e freschezza (come ben si richiede agli adolescenti, d’altra parte).

“A volte le cose migliori accadono quando meno te lo aspetti. Un giorno di luglio, durante le vacanze estive, finito il grest, ho accompagnato al campetto di basket mia sorella di 8 anni. Abbiamo palleggiato, tirato, solo noi due. Poi pian piano sono arrivati altri ragazzi e così abbiamo iniziato a giocare tutti insieme. Ho incontrato persone che non vedevo da tanto tempo , ma che da quel pomeriggio sono entrate a far parte della mia vita e alcune lo sono ancora oggi.

Tocca poi ad un altro spazio, ovvero il piazzale, e ad altre occasione sociali come la festa patronale, raccontata da una giovane mamma marocchina residente nel quartiere, e il doposcuola, un bellissimo ritratto del senso dell’essere maestri. Lascio ai lettori il piacere di scoprirli su Facebook: @humansofrizzo.

Qualche riflessione

Per chiudere, possiamo evidenziare alcuni nodi salienti.

Facebook e Instagram diventano, in maniera integrata, sia piattaforme di condivisione (una vetrina), sia un’occasione per stare insieme. Lo si capisce dal numero di post che commentano le storie (soprattutto in Facebook), aspetto che evidenzia la possibilità – in tempi di hate speech e violenza online – di un confronto aperto e sincero.

Il progetto, infatti, è animato da persone, che si relazionano con la tecnologia e che sfruttano il potenziale aggregante dei social.

Dal punto di vista formale e linguistico non si può non notare una cura profonda per la dimensione visuale: le fotografie non sono casuali, coinvolgono e ci conducono dalla persona ritratta e insieme a lei ci portano per mano dentro al territorio (al quartiere, alla porzione di spazio che è più che altro uno spazio simbolico).

Si tratta infine di una preziosa occasione di integrazione di prospettive in chiave intergenerazionale (le storie, ma anche i due canali social di accesso) e interculturale.

 

Per dirla con don Marco Rondonotti, che ha fortemente voluto il progetto: “abbiamo pensato che i social media, conosciuti dai più e sempre disponibili, possono essere un facile modo per ascoltare una voce, rispecchiarsi in un volto, riconoscersi e salutarsi per le vie del quartiere. Abbiamo fatto una scommessa: il digitale può essere un alleato per attivare delle virtuose pratiche di buon vicinato”.

Alessandra Carenzio

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