Tutorial WeCa in collaborazione con il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale
La Giornata Mondiale della Pace è una ricorrenza molto significativa per la Chiesa cattolica, e si celebra ogni anno il 1° gennaio. E’ significativa perchè quella data è dedicata a Maria Santissima Madre di Dio; perché suo obiettivo è riflettere e pregare insieme per la pace nel mondo; perché è una iniziativa rivolta a tutti, non solo ai cattolici.
Ogni anno, per questa Giornata, il Papa prepara un Messaggio, che è uno dei pronunciamenti più importanti di tutto l’anno.
Chi istituì la Giornata della Pace – invitando tutto il mondo a celebrarla – fu Papa Paolo VI, oggi santo. Siamo nel 1968, è in corso la ferocissima guerra del Vietnam che vede contrapposti, oltre al Nord e al Sud del Paese indocinese, anche Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina.
In questo quadro drammatico Paolo VI sbaraglia il campo: dice basta alla violenza e parla di pace, richiamando tutte le nazioni alle responsabilità che essa impone. E mettendo subito le cose in chiaro: la pace non è pacifismo; la pace è vita, verità, giustizia, libertà, amore; per il cristiano poi la “Pace è annunciare Gesù Cristo”, ed è quindi un aspetto sostanziale della fede.
Insomma, la pace non è una parola, per quanto bella, ma un cammino che tutti siamo chiamati a fare per costruire e promuovere uno sviluppo che riguardi la persona nella sua integralità: nella sua crescita materiale e nella sua maturazione spirituale. Lo sviluppo è il nuovo nome della pace.
A quel primo messaggio di Paolo VI ne seguirono altri, appunto uno ogni anno e sempre su un tema specifico e nella scia della dottrina sociale della Chiesa. La tradizione è ovviamente proseguita, con forza, con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI.
Ed è ora arrivata a Papa Francesco, che negli anni del suo pontificato si è soffermato su tante questioni impellenti oggetto di riflessione anche nell’ambito dei grandi consessi internazionali: la fraternità, la nonviolenza, il problema dei migranti e dei rifugiati, la buona politica, la conversione ecologica, la cura delle persone.
Cosa dice Francesco con il testo di quest’anno?
Anzitutto che la grave crisi pandemica ha esacerbato problemi preesistenti e si è associata al “rumore assordante” di conflitti e guerre, agli effetti del cambiamento climatico, alla povertà che avanza anche in tante aree del mondo considerato più sviluppato, alle diseguaglianze di un sistema economico che predilige l’egoismo individualistico al bene comune.
Per superare questa impasse Francesco indica tre strumenti:
1) dialogo tra le generazioni, 2) giovani, 3) lavoro.
Se la società è oggi interconnessa, un dialogo, anzi un’alleanza tra le generazioni non è solo utile e auspicabile: è necessaria. Anche a causa della pandemia gli anziani sono sempre più soli e i giovani sempre più isolati e privi di punti di riferimento. Per costruire un futuro solido c’è bisogno di frequentare il passato. Senza radici un albero non cresce e non produce frutto. E non è un caso la metafora ambientale, perché i giovani sono tra i primi, assieme ai più poveri e vulnerabili, a soffrire delle devastazioni della natura e sempre più ne chiedono conto ai loro padri, nonni, rappresentanti politici e istituzionali.
Un luogo in cui si può concretizzare il dialogo intergenerazionale è l’educazione. Quanti giovani oggi non possono permettersi di andare a scuola? Quanti l’abbandonano volontariamente? E il sistema educativo cosa fa per loro? Il Papa chiede un patto educativo globale, un patto per l’ecologia integrale che coinvolga tutti, istituzioni, famiglie, comunità, parrocchie, scuole… La politica rimetta l’educazione al centro non solo dei propri investimenti, ma anche dei propri progetti culturali e sociali.
Altro luogo ideale per il dialogo tra le generazioni è il lavoro. Ma oggi il lavoro scarseggia, e dove c’è è spesso insicuro, precario, ingiusto. La pandemia ha impattato sulla crisi economica preesistente colpendo maggiormente chi già versava in situazioni di difficoltà, i lavoratori informali, i migranti, generando addirittura nuove forme di schiavitù. È necessario riportare la dignità nei luoghi di lavoro e tra i lavoratori. Perché lavorare non vuol dire solo guadagnarsi da vivere; vuol dire esprimere se stessi e portare a compimento la propria vocazione e il proprio destino di persone. Promozione del bene comune, libertà di iniziativa imprenditoriale, responsabilità sociale devono fare da contraltare alla sola ricerca del profitto.
Tutti siamo chiamati a fare la nostra parte.
Insomma, la ricerca della pace, e la sua realizzazione, è quanto di più difficile tocchi agli uomini e alle donne della terra. Per essere vera, la pace, non ha bisogno di parole. Ha bisogno di azioni concrete. Ognuno di noi può essere “artigiano” di pace.
Roberto Paglialonga
Ufficio Stampa Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale